Noi che balliamo nel labirinto di spine: recensione del romanzo di Beatrice Corradini

Con Noi che balliamo nel labirinto di spine, Beatrice Corradini consegna ai lettori un testo che, pur appartenendo alla narrativa young adult, riesce a parlare a chiunque. Ambientato in Italia negli anni Novanta, il libro affronta temi duri, come bullismo e incapacità di comunicare, senza mai cadere nella disperazione, ma tenendo viva la speranza che la consapevolezza porti a un cambiamento reale.

Amicizia, rabbia e identità

Tra le vie di Poggio Mirto si muove Max, narratore dalla battuta pronta e dal temperamento irrequieto. Rasato a zero per ragioni non chiarite (forse in memoria di Rachele, forse per protesta contro la polizia o, ancora, per sentirsi pronto a una battaglia personale) il ragazzo si affida a un gruppo di giovani che viene definito da lui stesso con la parola branco.

Tobia, Cosma e Guido lo accompagnano nelle scorribande e negli atti di sopraffazione che, a ben guardare, nascondono fragilità. Soltanto in gruppo questi ragazzi trovano protezione, pur rischiando continuamente di oltrepassare il limite. È Fiore a fornire la parola più esatta, gregario, svelando la vera natura dei loro rapporti: una fratellanza che consola ma, al tempo stesso, imprigiona.

Max, motore della narrazione

Corradini costruisce Max con attenzione. Il suo lessico, pieno di slang anni Novanta, evoca walkman, biciclette sgangherate e fabbriche dismesse; ogni dettaglio restituisce la concretezza di un microcosmo che, all’apparenza immobile, spegne i sogni.

L’energia di Max viaggia con sbagli, sfuriate, lampi di generosità e una sete di giustizia che cresce pagina dopo pagina. Grazie al suo sguardo, il lettore comprende quanto sia complesso diventare adulti quando l’ambiente circostante sembra ignorare le richieste di cambiamento. Nonostante scivoloni e contraddizioni, il ragazzo impara a riconoscere limiti e responsabilità, suggerendo indirettamente a chi legge di fare lo stesso.

Il mistero di Rachele

Sul romanzo aleggia una domanda costante: che fine ha fatto Rachele? Il racconto si apre con la sua sparizione e procede alternando presente e ricordi. Max, incapace di archiviare l’amica come semplice volto del passato, avvia una ricerca ostinata che lo porta a sospettare di Santiago, figlio di un poliziotto e avversario dichiarato del gruppo.

La comunità osserva, mormora, ma resta muta quando si tratta di collaborare: da alcuni si parla di fuga volontaria, da altri di responsabilità precise. L’indagine si muove in strade polverose, costringendo il protagonista a mettere in discussione se stesso e chi gli sta vicino.

Ogni passo compiuto verso la verità coincide con un avanzamento interiore. Comprendere cosa sia accaduto a Rachele significa, per Max, misurarsi con il proprio codice morale e con la necessità di rompere silenzi complici. Così, tra colpi di pedale e notti insonni, il ragazzo inizia a intuire che la vera forza non risiede nella prepotenza di gruppo, ma nel coraggio individuale di dire basta.

Gianluca Rini

Sono laureato in Comunicazione e Multimedia e in Scienze Turistiche, ho conseguito un Master in Giornalismo e Comunicazione. I miei interessi vanno dalla tecnologia a tutto ciò che riguarda la cultura.